Ragazze mondiali

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Ragazze mondiali con il # davanti

È questo uno degli hashtag più usato in questi giorni.

Li avete visti i Mondiali femminili di calcio dell’Italia?
Adesso è tutto finito, le Americane si sono prese di diritto il titolo e noi non possiamo altro che dire “brave!!!”. Brave anche perché, come diceva la commentatrice sportiva ieri sera, loro sono anni che lottano per far sì che il calcio sia apprezzato anche al femminile.

Non è che l’Italia non abbia mai avuto sportive ai mondiali e quelle che ci sono andate, per le diverse discipline sportive, non sono meno meritevoli di quelle di cui si è parlato tanto in questi giorni; ma queste hanno fatto qualcosa di ancora più grande e hanno continuato il difficile cammino iniziato dalle altre.

Seguo il calcio fin da bambina, adoravo giocare con il mio vicino di casa, che non era particolarmente femminista, ma non aveva altra scelta, c’ero solo io ed ero una bambina o femmina (come poche volte ci piace essere chiamate). Quando riusciva a coinvolgere qualche amico maschio (come a molti di loro invece piace essere chiamati), io, ovviamente, finivo in disparte.

Non potevo giocare a scuola con i compagni o all’oratorio, perché ci giocavano solo i maschi, io guardavo… e una scuola di calcio per bambine non esisteva, solo nei miei sogni.
Uno dei miei album di figurine più amato non fu quello di Candy Candy, ma quello dei Mondiali Mexico ‘86; ricordo ancora la figurina di Michael Laudrup, un figo pazzesco della Danimarca, che allora giocava anche nella Juventus!

Amo gli sport e quando giocano le donne, ancora di più, non per cieco femminismo, ma semplicemente perché riesco ad immedesimarmi di più. Seguo il tennis perché da bambina poi il mio sport è diventato quello e per molti anni.

Ho sempre tenuto d’occhio anche il calcio però, perché il primo amore non si scorda mai! Non seguo il campionato perché mi nausea, ma se mi scappa una partita di una qualunque squadra alla televisione, anche straniera, magari due minuti mi ci fermo.
Però quando gioca l’Italia non ce n’è per nessuno, mi trasformo alla Fantozzi: casa deserta, telefono staccato, tv, divano, mi mancano birra e rutto libero.
E se l’Italia fa goal ovviamente urlo come un’indemoniata! Un anno che Roberto Baggio fece goal dopo il 90° ho pianto dalla gioia, non vi dico com’è andata nel 2006. La mia famiglia infatti di solito si allontana felice.

Non sono una che sale sul carro dei vincitori solo ora, io sul carro ci son salita tempo fa, quando ho saputo che questa squadra di calcio femminile si era qualificata per i mondiali; per me erano già vincitrici allora e avevo già la mia giocatrice preferita: Laura Giuliani, il portiere titolare, un coraggio da leoni e una splendida ragazza, piena di sorrisi e di voglia di giocare. Sì, perché queste ragazze, al contrario dei loro colleghi maschi, lo fanno per giocare, non solo per vincere o per riempirsi di soldi, anche perché di soldi non si riempiono affatto! Non sono nemmeno considerate professioniste!
Lo fanno ancora per tutti quei valori positivi che lo sport dovrebbe trasmettere e per i motivi per cui noi genitori, quando sono piccoli, ci diamo da fare, affinché trovino il loro preferito, quello che li fa o le fa sentire meglio, quello che dà loro maggiore sicurezza e voglia di divertirsi.

Da quando è cominciato il mondiale di queste ragazze io mi sono messa in modalità Fantozzi, ma il resto degli Italiani e soprattutto delle Italiane?! Quando giocavano non ho visto schermi giganti nelle città, quando hanno fatto goal non ho sentito urla della gente nelle case, quando hanno vinto le partite non ho visto auto che giravano per le vie strombazzando. Perché???!!!!!

Molte sportive italiane sono abituate a non avere tutto il seguito che hanno i loro colleghi uomini, salvo poi essere migliori in molte occasioni.
Le “farfalle azzurre” sono campionesse mondiali di ginnastica ritmica, “sì, va beh, ma quello è uno sport femminile!”.
Le ragazze della pallavolo? Sono il fiore all’occhiello dello sport italiano, ma la pallavolo si sa che la giocano “anche le donne”, anche se molti sanno chi è Andrea Lucchetta, pochi invece conoscono Maurizia Cacciatori o Francesca Piccinini, ma pazienza.
Valentina Vezzali e le altre della scherma…? Eh ma sono più interessanti le avventure fuori dalle gare di Aldo Montano.
Federica Pellegrini cosa doveva vincere ancora, per essere considerata quella che è?!
Ho assistito alla celebrazione del tennista Fabio Fognini poco più di un mese fa, perché ha vinto un importante torneo, ma qualche anno fa Flavia Pennetta e Roberta Vinci si sono battute in finale per un torneo altrettanto importante, a livello mondiale. Quanti italiani lo sanno?!

Queste calciatrici sono brave, sono piene di grinta e di coraggio, hanno una voglia spasmodica di giocare e, se capita, pure di vincere. Hanno faticato, si sono preparate al meglio e lo fanno tutti i giorni, perché non giocano nel giardino di casa loro, bensì in squadre come la Juventus, il Milan, la Fiorentina, la Roma, l’Atletico Madrid, il Paris Saint Germain.

Hanno un ct, Milena Bertolini, che è una vera signora, non come direbbero i soliti biechi commenti maschili “che ha i contro coglioni”, no, per niente, una volta di più non servono quelli per essere toste, agguerrite, capaci e competenti. È una signora con la S maiuscola: elegante, misurata, concentrata e sobria.
Una signora come ce ne sono tante in Italia, ma che spesso non possono occupare posizioni di rilievo, perché prima vengono gli uomini.

Persino negli studi televisivi hanno dato spazio alle tante giornaliste sportive, che non sono meno preparate dei colleghi uomini, ma che troppo spesso vengono zittite o nemmeno viene richiesto il loro intervento.

Allora mi rivolgo alle ragazze e alle donne italiane, ma soprattutto alle mie coetanee quarantenni e vi prego di rendervi conto di quello che hanno fatto queste ragazze, anche se non vi piace il calcio, perché la loro è stata un’impresa davvero titanica e il loro impegno e la loro tenacia, fanno bene anche a noi. E il fatto che qualcuno le abbia chiamate “4 lesbiche che giocano a pallone” dovrebbe farci ribrezzo, non meno di un burka portato nelle nostre strade.

Non sono 4, sono 23, che siano lesbiche o meno è affar loro, siamo fiere in ogni caso e, visto che si sono appena svolte le celebrazioni del gay pride in giro per il mondo, Italia compresa, se fra loro c’è qualcuna che è lesbica (e lo dico con grande serenità, senza alcuna accezione negativa) ci fa solo onore. Sono giovani, bellissime, sorridenti (il sorriso di Aurora Galli dopo i suoi goal è credo uno dei più solari che io abbia mai visto e mi ha reso fiera di essere italiana) da far invidia a qualunque modella o star; sono l’espressione di un paese che si evolve, nonostante si cerchi continuamente di riportarlo al medioevo.

Un paese in cui finalmente le nostre bambine possono portare il tutù, giocare con le bambole, ma anche ballare l’hip hop, giocare a spade di Star Wars e giocare a calcio! Sì anche a calcio.

La mia Anita sarebbe molto fiera di loro, ne sono certa, non seguiva il calcio e nemmeno gli altri sport, ma lottava perché le donne venissero considerate al pari degli uomini, e, ai suoi tempi, era una pioniera si può dire. Lei lottava con lo studio ed è stata una delle prime quattro donne laureate a Genova in Medicina.

Vorrei avere ancora l’età di queste ragazze ed essere allo stadio a vederle ed incitarle o almeno avere un’amica che festeggi con me le loro vittorie. Non importa, mi basta così, GRAZIE RAGAZZE!

Oprah Winfrey un’ispirazione

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Perché Oprah Winfrey potrebbe essere un’ispirazione per tutte noi! Perché in questo momento, come in molti altri, vorrei essere una donna americana e di colore e vorrei poter parlare di emancipazione femminile?

Perché oggi tutte dovremmo volere la pelle nera o voler essere Americane almeno per un giorno? A mio parere per il discorso illuminante che ha fatto Oprah Winfrey, nota entertainer della tv d’oltre oceano, alla serata dei Golden Globe Awards, dove ha ricevuto il premio Cecil B. De Mille alla carriera.

Magari gli Americani non vi piacciono, magari odiate gli Stati Uniti, magari vi piace di più l’Europa, preferite l’understatement degli Inglesi o la misura dei Tedeschi o l’eleganza dei Francesi oppure l’esuberanza degli Spagnoli o addirittura dei Latino Americani. Questo non ha nulla a che fare con quello che piace a voi o a me. Oggi tutte le donne del mondo dovrebbero almeno per un giorno, a mio parere, voler essere Americane, per poter magari in un futuro votare questa donna alle elezioni o comunque avere nel proprio popolo una donna così.

Non è per lei come persona, che vi può essere più o meno simpatica e potete trovare più o meno ammirevole, ma è per lei in quanto simbolo di qualcosa, lei e tutte quelle come lei, perché là ce ne sono tante, e ne abbiamo anche noi, non è che a noi manchino, però a noi manca l’essere Afro-americano, che non è essere Africano e non è essere Americano.

Essere Afro-americano è una cosa molto diversa, molto particolare, singolare, propria e con una storia, una storia abbastanza lunga, lunghissima per gli Americani, un po’ meno lunga per noi Europei, che conosciamo millenni di storia; una storia molto interessante per tutti, perché molto travagliata, perché piena di lotte coraggiose, di traguardi importanti, ricca di personaggi coraggiosi, uomini e donne apparentemente ai margini della società o comunque persone comuni, come le due donne che Oprah Winfrey nel suo discorso nomina: Recy Taylor e Rosa Parks.

Rosa Parks probabilmente molti di voi la conoscono, e se non la conoscete vi invito ad andare a vedere chi è stata; probabilmente non vi ricorda nulla il suo nome, ma dell’episodio di quella donna che ha rifiutato di lasciare il posto sull’autobus ad un bianco nel ’55 in Alabama (uno degli stati d’America più difficili per la convivenza tra bianchi e neri), magari ne avete sentito parlare. Beh questa donna dall’immenso coraggio si chiamava Rosa Parks ed era già un’attivista per i diritti civili degli Afro-americani, insieme al marito, anche prima di quell’episodio.

Recy Taylor è una donna meno conosciuta, che infatti Oprah Winfrey nel suo discorso invita tutti a conoscere, è un’altra donna dalla grande forza, che, dopo essere stata violentata da sei bianchi, ha rifiutato di tenere nascosta la cosa, li ha denunciati e si è fatta aiutare da Rosa Parks per affrontare la causa; ovviamente poi, dato che era solo il ’44 ed erano anche in quel caso in Alabama, non è successo niente, cioè i suoi attentatori non sono stati condannati e lei ha dovuto subire anche l’umiliazione di vedere che questi maledetti uomini sono rimasti liberi.

Io oggi vorrei avere la pelle nera per il discorso dalle note vibranti che Oprah Winfrey ha fatto, in merito a queste due donne e alla violenza su tutte le donne, prendendo spunto dal caso molto recente portato a galla dal movimento #MeToo.

Anche lei in fondo, Oprah Winfrey, ha avuto una storia difficile, perché figlia di una ragazza madre, cresciuta nella più infima povertà e provata in adolescenza dalle molestie maschili di parenti ed amici. Di donne afro-americane che hanno vissuto e sopportato una vita così ce n’è tante, ma non solo Afro-americane, anche Americane e anche Europee, senza parlare poi di quelle dell’est, dell’estremo Oriente o delle donne Africane.

Ma proprio perché in questi giorni si parla di violenza sulle donne in America, anche negli ambienti altolocati e in quelli dello spettacolo, il suo discorso, che tocca temi come la violenza, il razzismo e la disuguaglianza tra gli esseri umani, è illuminante per tutti e per tutte, non solo per le donne Afroamericane, non solo perché forse tra qualche tempo vedremo Oprah Winfrey presentarsi per la corsa alla Casa Bianca, ma perché anche per noi Italiane è d’ispirazione e non solo per noi donne, dovrebbe esserlo anche per gli uomini.

Chiaramente è un po’ sopra le righe, con toni da discorso presidenziale, ma perché gli Americani per noi sono sempre un po’ sopra le righe e perché lei è e vuole essere un po’ così, ma noi li possiamo anche accettare così per quello che sono, come noi Italiani siamo in un altro modo, come gli Inglesi sono in un modo ancora diverso.

Ma la potenza, la forza, l’entusiasmo, l’energia che Oprah Winfrey mette in questo discorso possono essere uno slancio per tutte le donne del mondo, perché ancora oggi, le donne di tutto il mondo si trovano a dover lottare contro la violenza, contro le molestie, le angherie, contro una forma di violenza meno palese dello stupro, ma comunque importante, come le vessazioni sul lavoro perché sei donna.

È un discorso purtroppo ancora molto attuale e, se proviene da una donna come lei, non che sia un idolo, non ho mai creduto negli idoli e non comincerò ora, che sono troppo grande per farmene, ha, credo io, una valenza maggiore.

Lei ripete più volte “Their time is up!”, e vuol dire che il tempo di questi uomini potenti o violenti è finito, probabilmente il suo intento è quello di  ampliare il discorso in modo che venga letto come “il tempo di tutta questa prevaricazione del sesso maschile sul sesso femminile è finito” e forse potremmo allargare il suo discorso non solo all’America e agli Afroamericani, ma anche a noi Europei e alle donne Africane e dell’estremo Oriente.

“Their time is up!”. Non ci arriveremo domani, non ci arriveremo neanche fra qualche mese o fra qualche anno, però io mi auguro che le nostre figlie possano gridarlo con fierezza e quasi al passato questo “Their time is up!”, perché c’è bisogno che finisca. L’emancipazione femminile in questo secolo passato è stata velocissima, come tante cose nel ‘900, quindi potremmo anche essere soddisfatte, però non lo siamo perché non dovevamo partire così, perché non si doveva partire da una disuguaglianza così smaccata, in teoria avremmo dovuto cominciare con gli stessi diritti da sempre.

Pazienza, è andata così, ma a noi donne di oggi spetta il compito di continuare, e come lo fa Oprah Winfrey, che è un po’ più vecchia di me, lo dobbiamo fare anche noi più giovani; continuare l’impegno, la battaglia, ogni giorno nelle piccole cose, come si dice spesso, per arrivare alla tanto agognata parità dei sessi. Una parità che purtroppo non esiste ancora in moltissimi paesi del mondo e nemmeno in America, che sembra sempre il paese più emancipato di tutti, più avanti di tutti.

Il fatto che il discorso venga fatto da una donna afroamericana è ancora più d’orgoglio per me, non perché anch’io sia di colore, purtroppo, ma perché, potrebbe essere un discorso utile e importante anche esposto da una donna bianca, ma fatto da una donna di colore è più forte, ha più energia.

È come se assumesse più significato, e ti rende ancora più orgogliosa di essere una donna, e in più, se sei una donna bianca, ti mette la voglia di essere di colore, perché ti sembra che loro abbiano più storia, più forza, più diritti di parlare e di alzare la voce e con essa la testa, proprio perché ne hanno passate di più; loro, le loro madri, le loro nonne e le loro bisnonne, hanno sopportato molte più ingiustizie di noi e delle nostre. Quindi da parte mia l’ammirazione è totale.

Vorrei avere la pelle nera e vorrei essere Afro-Americana, anche solo per un giorno!

Se volete vedere il discorso cliccate qui http://www.oprah.com/own/oprahs-acceptance-speech-at-the-golden-globes-full-transcript è in inglese ma comunque in internet lo trovate anche con i sottotitoli.

Un donna di mezza età

Una donna di mezza età

Quanto il mio mondo è diverso da quello di Anita, quanto siamo distanti, quanto siamo diverse, davvero solo due generazioni?! Guardo la nuova pubblicità di una nota azienda di abbigliamento italiana, fiore all’occhiello dell’industria manifatturiera della penisola, con una Julia Roberts di cinquant’anni, più splendente che mai, e mi vengono molte riflessioni assolutamente diverse in mente.

Julia Roberts è l’icona dei tempi moderni, che l’astuta azienda ha scelto come testimonial, perché piace sia agli uomini che alle donne, soprattutto forse alle donne; è la Marilyn Monroe dei nostri tempi, che, pur non essendo assolutamente come le persone normali e pur essendo ben al di sopra della comune bellezza femminile, mostra una semplicità e una naturalezza, che le donne di tutte le età adorano; l’adorano perché permette loro di illudersi, anche solo per un attimo, di potersi immedesimare e sentirsi un po’ belle come lei. Inoltre ha cinquant’anni, un’età che le donne affrontano da sempre con molta fatica, forse negli ultimi anni ancora di più, perché, per ovvi motivi, si sentono invecchiare e non possono più contare tanto sul loro aspetto fisico.

Ancora più geniale quindi la trovata della nota azienda, che non punta più soltanto sulla teenager o sulla giovane bellezza, ma anche e forse soprattutto sulla cosiddetta donna di mezza età, che, detta così fa un brutto effetto, quindi forse è meglio definire la donna matura, che può tranquillamente continuare ad adornare il proprio corpo, con accessori ed abiti che la facciano sentire ancora bella e piacevole, perché è più importante sentirsi belle a 40-50 anni, che non a 20! Julia Roberts ripropone se stessa, che fa acquisti ed esce dal negozio con diversi sacchetti, come nel film di quasi trent’anni fa, che l’ha rivelata al mondo intero nel suo splendore, e manda così un messaggio: il tempo passa per tutte, anche per lei, ma il suo sorriso, famoso in tutto il mondo, è ancora più smagliante, sicuro, deciso, come dovrebbe essere quello di ogni donna, che, consapevole delle proprie rughe e smagliature, si accetta per quella che è.

Marilyn Monroe a cinquant’anni non ci è nemmeno arrivata ed ai tempi di Anita le donne mature non erano certo così sostenute dalla società, perché cominciavano a scendere la china e per loro non c’era certo spazio per pensare alla bellezza; nemmeno per le dive, che infatti spesso si ritiravano dalle scene, per evitare critiche e confronti dolorosi. Quindi la domanda che mi pongo, dopo tutto questo prologo, è se davvero siano bastate due generazioni per cambiare tanto le cose, per fare in modo che le donne siano sufficientemente considerate, che la loro importanza sia ritenuta finalmente fondamentale, per l’andamento della società. Mmh… forse no, forse Anita e le altre tre uniche studentesse di Medicina del suo anno a Genova erano molto più moderne di una Julia Roberts o di tutte quelle, come noi adesso, che pensano che l’emancipazione femminile abbia fatto passi da gigante.

In realtà infatti quella è una pubblicità e serve solo per vendere più prodotti, quindi è ingannevole, non può essere un quadro sull’emancipazione femminile; oppure può essere vista come un tentativo ben riuscito, anche se magari non voluto, di farsi sentire, di continuare a dichiarare che le donne, soprattutto a cinquant’anni contano, anche se devono fare qualcosa di apparentemente poco importante come scegliersi le calze o i collant.

E perché proprio i collant? Non è un caso. I collant sono l’espressione massima della femminilità. Quel collant che sembra essere tornato prepotentemente in passerella, in un momento così delicato in cui da una parte del mondo si indossano ancora e sempre di più le mini gonne e dall’altra parte del mondo si indossano i burka o altri veli che nascondano le forme. Un momento in cui queste due visioni del corpo femminile sono a confronto e fanno parte di un discorso molto più ampio, sulla dignità della donna e sul rispetto del genere femminile. Un mondo davvero confuso in cui alcune culture orientali mal sopportano proprio questa “libertà” della donna, tipica di alcune culture occidentali.

Anita era una pioniera, l’ho già detto, una piccola Rita Levi Montalcini, che credeva molto più nella propria intelligenza, piuttosto che nella sua bellezza, e che, certamente nel suo piccolo, ha contribuito, come tante insieme a lei, all’evoluzione del pensiero e alla considerazione che si ha adesso del ruolo femminile nella società occidentale. Purtroppo, Anita, con rammarico, ti devo confessare che, anche se Julia Roberts sorride in modo straordinario, per noi donne ordinarie, che faticano a sentirsi straordinarie, c’è ancora molta strada da percorrere, soprattutto se abbiamo quell’età in cui essere chiamate “signora” è più che normale. Siamo ancora scomode per l’altra metà maschile, siamo ingestibili, sottopagate, spesso considerate a torto meno brave dei nostri parigrado, e, in molti casi purtroppo, maltrattate e usate come merce. Forse ti aspettavi qualcosa di meglio, per la fatica che hai fatto tu, forse meritavi passi avanti veri, non solo una gran gioia nel comprarsi le calze!

A dir la verità possiamo comunque essere soddisfatte, soprattutto se pensiamo ad altre donne come noi, che vivono in zone del mondo, dove l’esistenza è davvero complicata, in particolare per loro. Noi ce la mettiamo tutta, forse siamo meno coraggiose di voi, donne del ’45, maestre di coraggio e di dignità, ma, nella fatica di tutti i giorni, di farci accettare per quello che valiamo, andarci a comprare i collant è davvero un gesto consolante, nella sua semplicità!

P.S. Aggiungo che sono stata testimone per caso della bravura di quelle donne, che tengono realmente in piedi l’industria manifatturiera dell’abbigliamento italiano, che ha fatto la storia di questo paese; e ti potrei dire, Anita, che davvero saresti orgogliosa di loro, perché, in totale anonimato, lavorano con una professionalità e un impegno che tutte le case di moda, anche francesi, ci invidiano. Quelle sono donne mature, vere signore, che magari solo raramente si vanno a comprare un collant, ma dovresti vedere la loro soddisfazione nel veder crescere un abito, la loro serietà nel lavoro… loro sì possono dichiararsi, in modo deciso, degne di essere tue discendenti! E allora grazie a tutte queste donne, dalle quali mi sento gloriosamente rappresentata e che, come te, costruiscono silenziosamente e con umiltà la storia delle donne italiane.

Questo articolo è dedicato a tutte le lavoratrici di un’importante azienda del parmense, che lavora per una nota casa di moda italo-francese, che ho avuto il privilegio di vedere all’opera. Grazie perché mai dimenticherò la vostra professionalità e la passione che mettete nel lavoro, ma soprattutto il mio fascino nell’assistere alla crescita di un capo, attraverso il lavoro di tante mani esperte, dal primo disegno alla confezione. Complimenti!